Il volume che il lettore ha per mano è uno strumento di rara efficacia per chi è desideroso di conoscere le peculiarità e le funzioni di una realtà in così rapida evoluzione com’è il non profit italiano. Scritto in modo
chiaro e accattivante, questo testo si fa particolarmente apprezzare per il modo organico in cui gli aspetti contabili e giuridici degli enti non profit sono trattati nei vari capitoli. Di grande utilità pratica è poi il capitolo sulla prassi e sulla giurisprudenza italiana intorno alle ONLUS.
Per comprendere quale spazio il Terzo Settore occupi nel nostro Paese, occorre porsi in una prospettiva storica. Il primo nucleo di riflessioni sul welfare risale al 1919 quando in Usa grandi imprenditori come Andrew Carnegie, David Rockefeller ed Henry Ford siglano una sorta di patto da cui nasce il cosiddetto welfare capitalism.
L’idea è che devono essere le imprese a farsi carico del benessere dei dipendenti e delle loro famiglie. Il welfare capitalism nasce, quindi, sul principle of restitution, il principio di restituzione: le imprese fanno profitto grazie alla comunità di riferimento e quindi devono sentirsi moralmente tenute a restituire parte di quel profitto alla comunità stessa.
Il punto di debolezza del modello è che non garantisce l’universalismo: ovvero, non garantisce diritti, ma solo legittime aspettative di benessere.
Per questo motivo, esattamente 20 anni dopo, nel 1939, Keynes avrebbe scritto un saggio, intitolato «Welfare and democracy», che difende le ragioni dell’universalismo. I servizi, soprattutto in ambito sanitario e sociale, devono soddisfare la condizione di universalità, perché i cittadini godono di diritti fondamentali che non possono essere condizionati dall’appartenenza a questa o a quell’impresa.
È la nascita del welfare state: lo Stato si fa carico delle condizioni di bisogno dei suoi cittadini, dalla culla alla bara. Un modello, tuttavia, che, da 20 anni a questa parte, è entrato in crisi. Una crisi dovuta sia a ragioni
fiscali (le risorse ottenute dalla fiscalità generale non bastano più a finanziare servizi di qualità), sia al fatto che il welfare statale non soddisfa il criterio della personalizzazione dei bisogni.
Lo Stato deve trattare tutti alla stessa maniera: di conseguenza, eroga i servizi in maniera indifferenziata.
Ma le necessità di un cittadino di Palermo non sono le stesse di uno di Milano. Da qui, un’insoddisfazione generalizzata. La riprova è che in Italia la spesa sociale pro capite è in linea con quella degli altri paesi europei, mentre il coefficiente di Gini, che misura le disuguaglianze, è pari a 0,36, contro lo 0,22 della Svezia. Preso atto della crisi del welfare state si aprono oggi due alternative.
Il ritorno al welfare capitalism, in una forma rinnovata ed estesa, è la soluzione prospettata dai neoliberisti. Secondo questa prospettiva, spetterebbe all’azienda, in un’ottica di responsabilità sociale d’impresa, farsi carico del finanziamento e delle modalità erogative.
Allo Stato spetterebbe un intervento di indirizzo e di controllo, cosa che nel 1919 mancava.
L’altra via, preferibile, è, invece, quella della welfare society.
L’idea è che l’intera società deve farsi carico dei bisogni dei cittadini. La società è composta da tre sfere: quella degli enti pubblici, quella del mondo delle imprese e quella della società civile organizzata, il cosiddetto «terzo settore». Le tre sfere devono interagire fra loro in maniera sistematica sia nella fase della progettazione/programmazione, sia nel momento della gestione dei servizi.
Questo schema traduce, in pratica, il principio di sussidiarietà circolare, che va oltre la versione della sussidiarietà orizzontale, alla base del welfare capitalism.
Ebbene, una delle più significative specificità della realtà italiana è quella di aver inventato e attuato per prima il modello del terzo settore produttivo. Il mondo anglosassone, invece, ha sempre privilegiato il
modello del terzo settore distributivo. Ecco perché la recente diatriba a proposito dell’applicabilità dell’IMU alle realtà non profit poggia su presupposti sbagliati.
Considerare commerciale qualsiasi attività che si traduce in una «offerta di beni e servizi di mercato» – come recitano le circolari europee – significa dare per scontato che tutti gli enti di terzo settore debbano essere
di tipo distributivo. Il che è una palese violazione della verità dei fatti, oltre che del principio di libertà sociale.
L’UE non è stata voluta dai suoi padri fondatori per annullare le identità nazionali, che dicono della specifica matrice culturale di ciascun Paese, né per difendere gli interessi di alcuni paesi a scapito degli altri. Si (ri)
legga, a tale riguardo, il celebre discorso di Jacques Delors sul principio di sussidiarietà del 1994.
Alla luce di quanto precede, non si può non essere grati agli autori per l’impegno profuso in questa opera che ora viene presentata al giudizio del lettore. C’è un grande bisogno di conoscere a fondo la realtà e i modi
di funzionamento dei soggetti di Terzo Settore questo volume soddisfa appieno tale bisogno.
D8
“
Recensioni
Ancora non ci sono recensioni.