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Prime riflessioni sulla nuova riforma dell’abuso d’ufficio

riforma abuso d'ufficio

Nel dibattito sull’eventuale abrogazione del reato di abuso di ufficio, entrano a piedi uniti i Procuratori della Repubblica.

La tesi dei Procuratori…

La tesi sostenuta da buona parte di essi consisterebbe nell’utilità del mantenimento della figura criminosa: si dice «sarebbe utile fare indagini sull’abuso di ufficio perché grazie a queste indagini, spesso si scoprono reati di corruzione ben più gravi».

Essi, pur riconoscendo che si tratta di un reato di scarsissima applicazione e di difficilissima configurazione, con statistiche che documentano l’avvenuta archiviazione o l’assoluzione degli imputati con punte fra l’80 e il 90%, ritengono tuttavia che il mantenimento del reato previsto dall’art. 323 nell’alveo del codice penale costituirebbe, da un lato, un deterrente per la commissione di più gravi reati, e, dall’altro, sarebbe addirittura portatore di una qualche utilità per i pubblici amministratori sottoposti ad indagine per abuso di ufficio: essi, infatti, dall’avvenuta archiviazione e, ancor di più dalla loro assoluzione, trarrebbero indubbi benefici, dal momento che ci sarebbe un giudice a certificare la legittimità del loro operato.

…e le connesse criticità

Questi ragionamenti sono frutto di una distorta visione dei fini del processo penale, che, come ci hanno insegnato i padri costituenti, non ha alcuna finalità di deterrenza, ma dovrebbe essere funzionale all’accertamento di responsabilità personali per la commissione di ben individuati fatti costituenti reato, dopo aver acquisito possibilmente in tempi ragionevoli e aldilà di ogni ragionevole dubbio la prova della colpevolezza (o della innocenza) dell’imputato.

Dunque, nessuna deterrenza a meno che non si voglia considerare, come purtroppo è nei fatti, e come affermava Francesco Carnelutti, uno dei padri del nostro ordinamento giuridico, già nel 1946: «Se il processo penale è di per sé una pena, bisogna almeno evitare che la stessa abbia una durata irragionevole».

Altrettanto aberrante è la tesi secondo la quale un pubblico amministratore dovrebbe essere “contento” di finire in una indagine penale, perché il successivo pro-scioglimento certificherebbe la piena legittimità del suo operato, certificazione che competerebbe alla magistratura penale: la magistratura proprio non ha questo ruolo, né ha bisogno di caricarsi di ulteriori improprie funzioni, che già tanto danno hanno portato alle nostre istituzioni. Sotto questo profilo, peraltro, la riforma Cartabia, allargando lo spazio dell’archiviazione e restringendo i casi di rinvio a giudizio, ha ridisegnato in senso garantista i poteri del P.M. e la discrezionalità dei giudici dell’udienza preliminare, con l’intento proprio di eliminare indagini e processi inutili e dispendiosi.

L’abuso d’ufficio come reato spia

Ma, a ben guardare, anche l’opinione secondo cui la principale utilità della permanenza del reato di abuso di ufficio starebbe nella sua natura di “reato spia” della corruzione, al cui accertamento si arriverebbe solo grazie ad indagini partite da presunti abusi nello svolgimento di attività amministrative, appare oggi del tutto destituita di fondamento. Questa tesi non tiene conto di quanto affermano concordemente tutti gli operatori, e cioè che il reato di abuso di ufficio, per come è stato strutturato oggi, è di difficilissima configurazione, dal momento che è necessaria la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità. In altri termini, laddove per il perseguimento del pubblico interesse l’amministratore pubblico si trovi di fronte ad una qualsiasi scelta, non sarà configurabile il reato di abuso di ufficio. La rigorosa regola del codice prevede inoltre una particolare forma della volontà colpevole: il dolo intenzionale; occorre dunque anche provare che il pubblico ufficiale abbia intenzionalmente procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o abbia arrecato un danno ingiusto. È di palmare evidenza che è molto più semplice provare un avvenuto accordo corruttivo, piuttosto che una simile, ormai del tutto marginale, distorsione della funzione pubblica esercitata. Oltretutto la corruzione è punita con pene ben più severe e dispone di un armamentario investigativo di portata sicuramente più efficace.

Allora come si può sostenere che l’abuso di ufficio serva per accertare la corruzione? E poi è giusto indagare su un reato diverso con l’intento di perseguirne un altro?

La riforma auspicabile

Se davvero si vuole mantenere l’abuso di ufficio, si operi per una riforma dello stesso che non lo renda marginale e faccia sì che con esso si possano perseguire quelle distorsioni delle pubbliche funzioni che non trovano spazio in altri reati, senza però incorrere in una genericità della condotta, già in passato in odore di incostituzionalità, come nella sua precedente formulazione. Ma questo è tutt’altro discorso.

Raffaele Marino

(già Procuratore Aggiunto della Repubblica)