Chi ha in mano questo libro, proprio perché lo ha in mano, ha sicuramente la sua risposta. Io posso dare quella che – al di là dei casi e delle coincidenze che governano la maggior parte della vita, per tutti noi – è stata la mia motivazione, ormai molti anni fa. Allora la comunicazione non aveva ancora nessuna rilevanza accademica. Ricordo una conversazione colta da neolaureata nei corridoi dell’Università, fra professori di materie ‘tradizionali’ e molto più accreditate, commentando il fervore dello sparuto manipolo che ai tempi si adoperava per ‘fare spazio’ alla disciplina ed aprire nuove frontiere di studio e di ricerca: ‘Io non capisco tutto il da fare che si danno intorno a questa ‘comunicazione di massa’: una cosa di cui fra qualche anno non si parlerà neppure!’. Infatti oggi di comunicazione di massa si parla molto meno, ma soltanto perché il concetto ci sembra incompleto e impreciso (finalmente!) e perché il sistema della comunicazione – nel frattempo – è sostanzialmente mutato, (ri)aprendo spazi imprevisti ad altre modalità e modelli comunicativi. Tornando ai motivi di una scelta sicuramente ‘eccentrica’ per i tempi, io ho sempre avuto una spiccata tendenza a studiare le cose che non mi piacciono, ma delle quali subisco il fascino. È un sentimento, io credo, alla base di ogni atteggiamento ‘apocalittico’: si rifiuta in blocco ciò che si teme, ciò in cui in qualche modo si riconosce una parte di sé – la meno nobile, forse, la meno ‘educata’ – cui non si vuol cedere. La paura è quella ‘di cadere oltre la frontiera che si è costruita come difesa e al di là della quale non si vuole spingere lo sguardo’. Le parole fra virgolette sono di Alberto Abruzzese in un saggio di qualche anno fa, intitolato: Elogio del tempo nuovo. Perché Berlusconi ha vinto. E non è un caso, io credo, che compaiano qui, e ora. Perché alla radice del successo politico di Berlusconi molto ha contato la sua capacità di essere-in nel mondo dei gusti, dei desideri e dei sogni di coloro ai quali chiede consenso. Il possesso e il controllo delle fonti e delle forme dell’informazione, certo, ma soprattutto la capacità di praticare i territori e le forme del divertimento, dello spettacolo, del consumo.
E del calcio, come passione, come dominio, come cassa di risonanza. Come metafora del combattimento, che il ‘capo’ sostiene alla guida della sua squadra, dei suoi tifosi, del suo popolo.
Quando, proprio con e grazie ad Abruzzese, che ne ha scovato in me la vocazione, ho cominciato a studiare comunicazione non avrei saputo esprimermi in questo modo, ma credo che la sostanza della mia passione (etimologicamente da patior, subire) sia tutta qui: nella mia insopprimibile tendenza ad inoltrarmi nelle zone oscure delle mie ambivalenze e, anche, di portarvi luce.Ma, ancora, nell’orgogliosa affermazione che praticare il terreno nemico, dell’altro, non è cedere al suo potere. La mia era ed è, anche, passione politica. Perché per me studiare significa, innanzitutto, cambiare, agire. E sono sempre stata convinta che il primo modo per cambiare il mondo sia cambiare il nostro sguardo su di esso.
Perché lavorare nella comunicazione? Anche a questa domanda, chi ha in mano questo libro ha sicuramente una risposta, perché è a lavorare nella comunicazione che si prepara chi ha in mente di ‘studiare comunicazione’. E saranno certamente tutte risposte valide, al di là dei sogni, delle fantasie, delle chimere di cui saranno – altrettanto certamente – innervate. Anche io ho la mia. E siccome ho studiato, sono anche in grado di darle un padre spirituale: Walter Benjamin, quando rivendica la possibilità, oltre che di ‘rifornire’ gli apparati produttivi, di trasformarli. Nella misura del possibile, aggiunge. ‘L’apparato borghese di produzione e pubblicazione – scrive Benjamin, in L’autore come produttore – può assimilare, e anzi diffondere quantità sorprendenti di temi rivoluzionari, senza per questo mettere seriamente in questione la propria esistenza e l’esistenza della classe che lo possiede’.
Ciò è vero però, aggiunge ancora, soltanto se noi rinunciamo ‘a quelle correzioni nell’apparato di produzione’ che dobbiamo operare, nella misura del possibile. ‘L’autore che ha meditato sulle condizioni della produzione attuale – scrive Benjamin – non rivolgerà il suo lavoro ‘soltanto ai prodotti, ma sempre anche ai mezzi della produzione.’ E può farlo ‘solo con quell’attività che è la sua’: producendo. È dunque determinante il carattere paradigmatico della produzione, che può in primo luogo avviare alla produzione altri produttori, e in secondo luogo mettere a loro disposizione un apparato migliorato’. Questo è un motivo, secondo me valido – pur nella sua difficile, conflittuale, contraddittoria praticabilità – per lavorare nella comunicazione, a patto, si intende, di aver meditato (ed è da augurarsi che anche a questo serva frequentare un corso di laurea in Scienze della Comunicazione) sulle condizioni della sua produzione.
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