‘Il museo si trova oggi ad un crocevia: sta perdendo le sue funzioni secolari ma non smette mai di modernizzarsi e di attrezzarsi’ (François Dagognet, Le musée sans fin, Champ Vallon, Seyssel, 1984, p. 11). È necessario appuntare la nostra attenzione su questa considerazione prima di affrontare gli argomenti più propriamente tecnici oggetto di questo libro.
I ruoli del museo stanno profondamente mutando, le sue offerte non si limitano più alla esposizione di patrimoni culturali, oggetti del passato, quadri, ma si stanno diversificando fino a comprendere servizi che fino a pochi anni fa stentatamente avremmo associato ad un luogo d’arte.
Se oggi la domanda culturale è cresciuta in modo sorprendente è perché l’idea di benessere si associa non solo alla sicurezza sociale ed economica ma anche alla fruibilità di beni-simbolo rappresentati dall’arte, dai viaggi, dalle scienze, dalla storia. Ecco allora che il pubblico di strutture come il museo aumenta, comprendendo strati di popolazione con esigenze e livelli culturali diversi.
Presentare un’opera d’arte o esporre un quadro oggi non può più bastare. Bisogna accattivare il visitatore offrirgli un’esperienza coinvolgente, confortevole, entrare in comunicazione con lui, fare in modo che ritorni, che ripeta l’esperienza.
Non a caso, così scrisse Renzo Piano in relazione a quattro progetti immaginati per Pompei e destinati a rivalutare la città e a interessare i suoi visitatori: ‘Si potrebbe dire che il tutto costituisce un misto fra Disneyland e un museo scientifico. Lo spirito forse è quello di evitare Disneyland, che non deve essere un modello culturale. Senza però rinunciare al pubblico né alla scienza, come spesso accade quando si fa divulgazione poiché si presuppone che il pubblico sia stupido. No, il pubblico può essere reso intelligente mediante l’interesse e l’interesse deriva dallo spettacolo, dal suscitare la curiosità, dal fascino che si provoca con una buona regia nella spiegazione del sapere’ (da Le isole del tesoro, Electa, Milano, 1988).
Il pubblico, a parte quei pochi visitatori che vi si recano per l’arte piuttosto che per l’evento, vede il museo come un edificio multiuso, vuole ‘intrattenimenti culturali a dimensione di discoteca e un buon caffè’ (Hugh Pearman).
In un museo si deve poter mangiare, studiare (in Gran Bretagna la storia viene studiata e approfondita nei musei, non nelle scuole), ascoltare musica, assistere a proiezioni e dibattiti, incontrare gente.
Negli Stati Uniti, poi, si fa di più (e non c’è da meravigliarsene, gli americani sono pionieri nello sperimentare nuove realtà). Negli ultimi anni stanno prendendo piede nei musei d’oltreoceano attività periferiche alquanto curiose (il regresso delle fonti di finanziamento ne costituisce la causa principale).
La hall dell’High Museum di Atlanta, progettata da Richard Meier, per esempio, viene utilizzata per i matrimoni. La nuova parte aggiunta al Metropolitan Museum of Art di New York di Kevin Roche si affitta per ricevimenti e feste e il personale del museo si occupa di fiori, buffet, musica. Come dire… musei per tutte le occasioni!
Il museo è insomma diventato un potente ‘medium di comunicazione sociale’ (Luca Basso Peressut, Musei. Architetture 1990-2000, Federico Motta, Milano, 1999, p. 40) e come tale richiede una visibilità nuova e spazi adeguati alle rinnovate esigenze che facciano leva su un’architettura forte, eclatante, che attiri, incuriosisca, stimoli, coinvolga e non sia fossilizzata sulla ripetizione o sulla variazione di un tipo.
Negli ultimi decenni hanno svolto questa funzione il Centre Pompidou di Parigi (1977), il Guggenheim di Bilbao, il Groningen – con tanto di parco tematico – sull’isola artificiale del Verbindings Kanaal, (1989-1994), i science centres dalle architetture futuribili.
Si tratta di strutture che non hanno nulla del tradizionale edificio monumentale di un tempo, carico di messaggi scoraggianti e inibitori, spazio chiuso, selettivo, elitario, progettato esclusivamente per contenere i suoi oggetti e non per ospitare i loro visitatori.
Paul Valéry, che amava poco le istituzioni, descrisse così le sensazioni provate all’ingresso di un museo: ‘La mia voce cambia e si stabilizza su un volume appena più alto che in chiesa, ma molto più basso del normale. Ben presto non so più che cosa sono venuto a fare in questa solitudine, che ha qualcosa del tempio e del salotto, del cimitero e della scuola’ (citato in François Dagognet, Le Musée sans fin, Champ Vallon, Seyssel, 1979).Il nuovo museo ribalta questa immagine negativa perché deve essere un organismo vivo, funzionale. I suoi modelli, lungi dall’essere i palazzi del XIX secolo, devono avvicinarlo ai ‘centri commerciali vicino alle autostrade’ (Peter Eisenman, Il Wexner Center for Visual Arts at Columbus, Ohio, in Musei, Electa, Milano, 1991, p. 70).
È paradossale ma in questa nuova prospettiva l’originaria funzione del museo e cioè l’esposizione di oggetti, sembra passata in secondo piano. In effetti lo spazio destinato alle esposizioni è notevolmente diminuito in questi anni, mentre si è dilatato il numero delle raccolte da mostrare al pubblico (il rapporto è passato da 9:1 a 1:2).
A questo empasse hanno fornito soluzioni intelligenti alcuni progetti architettonici che, eliminando i tradizionali spazi espositivi permanenti e fissi, hanno dato vita a soluzioni innovative per favorire la rotazione delle collezioni, quasi a confermare quanto profetizzato da Le Corbusier: ‘Il vero collezionista tiene i quadri in ordine in uno scomparto e appende al muro il quadro che vuole guardare’ (in Vers una Architecture, Crès, Paris, 1923).
È allora utile citare l’esempio del museo della collezione Menil a Houston del nostro Renzo Piano (1981-1987), dove le opere conservate nella cosiddetta Treasure House posta sopra l’edificio, vengono di volta in volta, a turno, mostrate nella sala al piano terra.
Al Guggenheim di New York la rotonda è sede di mostre temporanee, mentre nelle sale della nuova ala sono collocate le esposizioni permanenti. Il progetto è stato molto discusso e criticato, ma fa parte dell’evoluzione dei tempi.
Non c’è dubbio che questa tendenza sia auspicata e salutata con entusiasmo dai responsabili museali, che vedono nella rotazione un modo efficace di attirare il pubblico, che, incuriosito da collezioni sempre nuove, è spinto a visitare più volte lo stesso museo.
Un’altra nuova realtà da considerare è quella relativa al proliferare di musei specializzati dove è considerato patrimonio culturale tutto ciò che è evidenza storica, celebrazione sociale (questa tendenza si è fatta strada a partire dal secondo dopoguerra nei Paesi occidentali).
Ecco allora nascere il museo dell’informazione, delle automobili, del design, della televisione, del cinema, della Coca-Cola (ad Atlanta), del Rock and Roll (a Cleveland), della Route 66 (a Oklahoma); ecco diffondersi fenomeni di musealizzazione del territorio come è accaduto alla Ruhr tedesca, ai ranch del Texas, ai musei all’aperto in cui è possibile assistere alla ricostruzione fedele di attività e modi di vita di comunità ormai scomparse come la città-museo dell’Ironbridge Gorge Museum in Inghilterra, polemicamente descritta da Bob West (cfr. Costruire la storia dei lavoratori inglesi: analisi critica dello Ironbridge Gorge Museum, in Robert Lumley, a cura di, L’industria del museo. Nuovi contenuti, gestione, consumo di massa, Costa & Nolan, Genova, 1989, pp. 43-74).
Originali i musei posti in luoghi impervi e solitari, come il Centro Europeo di Archeologia di Pierre-Louis Faloci (1991-1995) in Francia, tra le alture del Monte Beuvray, uno dei Grands Projets promossi dal presidente François Mitterand; o il museo di Peter Märkli che ospita le sculture di Hans Jospehsohn, cui si accede solo attraverso i campi nelle Alpi del Ticino.
Da citare infine i musei immersi nella natura, quasi a costituirne parte integrante, come il museo del vulcano che Hans Hollein sta scavando fra le montagne dell’Auvergne francese, il museo del legno di Tadao Ando nella foresta Mikata-gun in Giappone, il museo dei dipinti preistorici nelle caverne di Niaux in Francia.
Chissà Paul Valéry cosa penserebbe se entrasse oggi in una di queste strutture così poco cimiteriali.
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