Il decreto sulla concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività (D.L. 1/2012, convertito in L. 27/2012), più noto come «decreto liberalizzazioni», è stato il provvedimento-manifesto del Governo Monti, che ha ingaggiato una vera e propria battaglia contro le corporazioni che frenerebbero il libero mercato, la crescita e la produzione, secondo un’ideologia divenuta ormai trasversale e che fa presa anche a sinistra.
«Liberalizzare» significa almeno tre cose. In un’accezione, per così dire, «debole», che poi corrisponde a quella più comune, le liberalizzazioni consistono nell’ampliamento delle possibilità delle imprese di entrare nel mercato, instaurando condizioni di concorrenza e abrogando tutti quei limiti normativi e amministrativi che sottraggono determinati settori dell’economia al gioco delle normali forze del mercato.
In un’accezione più forte, invece, liberalizzare equivale a smantellare posizioni di privilegio o di esclusivo appannaggio di certi operatori economici o delle loro corporazioni.
Si parla, infine, di liberalizzazioni in caso di emanazione di nuove disposizioni che stabiliscano quadri di disciplina e parametri di garanzia al fine di assicurare il libero esercizio di un’attività e la salvaguardia di altri interessi collettivi.
Quale di queste nozioni prevale nella L. 27/2012? Sicuramente quella più debole, ma anche più minacciosa. La legge individua tra i massimi responsabili della crisi globale e del degrado italiano i notai, gli avvocati, i taxisti, i farmacisti e gli edicolanti, che impedirebbero al nostro Paese di competere sul mercato globale, anche se, fatti due conti, liberalizzare questi settori consente di guadagnare soltanto poche centinaia di milioni di euro: la «ciccia» sta altrove, soprattutto nel settore dell’energia, delle telecomunicazioni e dei grandi gruppi bancari, titolari di posizioni di monopolio e di privilegio sulle quali né il decreto liberalizzazioni né la legge di conversione sono intervenuti con la necessaria incidenza.
Nell’ambito delle misure di liberalizzazione in senso debole, finalizzate ad ampliare la possibilità delle imprese di entrare in determinati settori di mercato, la L. 27/2012 prevede, per alcune attività, il passaggio da un regime pubblicistico a un regime privatistico, secondo la c.d. opzione zero, che sacrifica, in maniera più o meno marcata, gli interessi pubblici diversi da quelli volti ad assicurare un assetto concorrenziale di mercato. È il caso, ad esempio, del famigerato art. 9 sulle professioni regolamentate.
Altre norme contenute nella legge danno attuazione al principio di sussidiarietà orizzontale: l’iniziativa dei privati, cioè, è promossa per perseguire, in maniera prevalente, finalità di interesse generale, mentre l’utilità dei privati non costituisce l’oggetto principale dell’attività economica. Si collocano su questa linea le disposizioni in materia di sevizi pubblici locali e, sia pure in formato embrionale, le norme sui servizi bancari e assicurativi. Anche le norme sulla repressione delle frodi assicurative dovrebbero realizzare l’obiettivo di evitare costi eccessivi per le assicurazioni e, quindi, ridurre i premi per gli assicurati.
Infine, abbiamo classificato una serie di disposizioni nell’ambito del modello di accesso razionalizzato alle attività economiche, espressione che descrive l’ipotesi nella quale soggetti privati agiscono in un mercato caratterizzato da una forte connotazione pubblica e che richiede, per essere efficiente, una razionalizzazione nella gestione delle risorse, come accade ad esempio alla distribuzione dei carburanti.
L’ultima tranche di norme comprende disposizioni che abbiamo accomunato sotto la definizione di «extravaganti», perché riguardano settori fortemente eterogenei difficilmente riconducibili a una ratio unica o prevalente. Sono disposizioni, per così dire, di chiusura, che completano il pacchetto degli interventi sulle liberalizzazioni.
Si tratta ovviamente di una classificazione delle norme della L. 27/2012 soltanto orientativa, all’interno della quale è possibile individuare norme che richiederebbero ulteriori e più specifiche etichettature.
Ciò che preme evidenziare, sul piano della ratio sottesa al provvedimento in esame, è l’impressione che il Governo abbia individuato alcuni capri espiatori per rimediare a una crisi economica dovuta a una serie di cause tra le quali, però, non si sono (soltanto) le lobbies.
La crisi economica globale è stata causata dagli eccessi del mercato libero, e non dagli eccessi della regolamentazione e dai limiti al mercato. Adesso, invece, c’è la communis opinio che non c’è stato abbastanza mercato, quando invece è sotto gli occhi di tutti che i guai sono dovuti proprio a un eccesso di libertà di mercato negli ultimi anni, soprattutto da parte di quegli oligopoli azionari che sono i primi beneficiari di queste politiche di liberalizzazione. Perché liberalizzare significa, in questo momento, avere grandi gruppi imprenditoriali che occuperanno le fette di mercato che prima erano nelle mani delle corporazioni. Un oligopolio di grandi compagnie con centinaia di taxisti dipendenti, di grandi studi professionali, di banche e assicurazioni o di grande distribuzione, colmerà gli spazi di mercato aperti dalle liberalizzazioni. I prezzi diminuiranno, forse, in un primo momento, ma poi aumenteranno a dismisura, così come aumenteranno sfruttamento dei lavoratori, stress e dipendenza degli utenti, come è avvenuto con il mercato della telefonia mobile.
Ad esempio, con la liberalizzazione del servizio dei taxi potrà accadere che qualche grande compagnia acquisterà un certo numero di taxi che poi affitterà a giornata, come già avviene nelle grandi metropoli statunitensi, istituendo così un nuovo modello di sfruttamento. Questo potrà far costare un po’ meno il taxi al cliente, ma anche il pallone di cuoio cucito dal bambino nel sudest asiatico costa un po’ meno. È questo il modello di società che abbiamo in mente? Vogliamo avere persone che lavorano in maniera dignitosa o persone sfruttate che lavorano 18 ore al giorno per pagarsi il taxi?
Il governo Monti aveva l’occasione di abbattere questa ideologia egemonica, che misura la vita con parametri quantitativi, inducendo senso di colpa in chi non produce o produce meno di quanto potrebbe.
Ma l’idea che si debba liberalizzare per aumentare la produzione non è così pacifica tra gli economisti: si produce fin troppo, e il problema non è quello di produrre di più per offrire merci e servizi a costi sempre più bassi ma distribuire meglio ciò che si produce, creando una società in cui l’esistenza sia, per tutti, più solidale e dignitosa.
Respingere l’ideologia delle liberalizzazioni significa — come ha osservato il prof. Ugo Mattei, docente di diritto civile all’Università di Torino — mettere al centro la pace di spirito che deriva dall’acquistare un immobile sapendo che non verrai truffato dalla banca che ti presta i soldi, pagare tasse sufficienti per un trasporto pubblico a buon prezzo che raggiunga tutti gli angoli delle città, apprezzare il variopinto colore delle edicole nel cuore delle città e la dignità degli edicolanti che vogliamo parte del ceto medio, godere di dieci minuti di conversazione col farmacista sapendo che ha tempo sufficiente per studiare e aggiornarsi e non è un povero commesso sfruttato.
Per costruire un mondo migliore non è necessario distruggere quello che abitiamo piegando le esistenze di ognuno ai bisogni del mercato, della crescita e della produzione.
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