Per lungo tempo le questioni tributarie ed i rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuenti sono state viste quasi esclusivamente attraverso le lenti del processo, come se lo sbocco naturale e per certi versi necessitato di ogni confronto tra Uffici tributari e cittadini fossero le aule giudiziarie. Dopodiché, visto che la richiesta delle imposte mediante atti autoritativi di accertamento o della riscossione chiama essenzialmente in causa posizioni del privato aventi rilevanza patrimoniale, queste ultime sono state tradizionalmente inquadrate tra i «diritti soggettivi», insuscettibili di essere degradati ad «interessi legittimi» da parte degli atti dell’amministrazione: in questo contesto, il modello processuale di riferimento era prevalentemente quello civilistico, di una controversia tra un creditore ed un (asserito) debitore, alla stessa stregua di una lite tra privati. All’obbligazione tributaria, del resto, venivano in gran parte estesi gli schemi, collaudati, delle obbligazioni di matrice civilistica.
Ed è forse anche per queste ragioni che non si sono sempre tratte le debite conseguenze dalla matrice amministrativistica della materia e dalla natura impugnatoria del processo, essenzialmente inquadrabile alla stregua di un sindacato esercitato da un pubblico funzionario (qual è in fondo anche il giudice) sull’operato di un altro ufficio pubblico, titolare della funzione di amministrazione dei tributi, onde stabilirne la correttezza e la legittimità contestate dal contribuente.
Si spiegano così, con l’incompiuta comprensione di un modello di giudizio incentrato sul controllo dell’operato dell’amministrazione, anche le trite formule del processo tributario come giudizio «sul rapporto», anziché «sull’atto», tranne nelle ipotesi – ritenute quasi residuali – di un annullamento del provvedimento amministrativo per la sussistenza di vizi di forma o anche di sostanza (com’è, in fondo, il difetto di motivazione) talmente gravi da impedire un esame del merito, e da determinare in limine una pronuncia di annullamento integrale del provvedimento impugnato.
La formula giurisprudenziale dell’atto di accertamento come «veicolo di accesso» al processo tributario – talvolta utilizzata per sminuire i vizi dell’atto amministrativo, come quello attinente alla sua corretta notificazione – insieme al riferimento ad un giudizio pieno del giudice tributario sul merito del rapporto, forse retaggio di un tempo in cui le commissioni tributarie avevano natura amministrativa e poteri, sostitutivi, di accertamento, ha contribuito ad alimentare l’equivoco, e messo in ombra il fatto che quello tributario è sempre un giudizio sull’atto impugnato e/o sull’operato della pubblica amministrazione (e lo è anche, a ben vedere, nelle controversie di restituzione, poiché anche qui il giudice deve pronunciarsi sulle ragioni opposte all’amministrazione alla richiesta di rimborso ), in cui le questioni concernenti l’an e il quantum debeatur sono immancabilmente filtrate attraverso le allegazioni dell’Ufficio finanziario, che nell’emanare il provvedimento (vero e proprio «oggetto» del giudizio, e non certo mero «veicolo di accesso» al medesimo) delimita e circoscrive, insieme agli speculari motivi di ricorso, l’ambito di cognizione del giudice.
Non solo, dunque, le Commissioni tributarie non possono sostituirsi all’autorità fiscale nel rideterminare in aumento l’accertato, ma non possono nemmeno porre a base della loro decisione di eventuale conferma della pretesa ragioni diverse da quelle allegate dall’Ufficio.
Il principio dispositivo si coniuga qui con il divieto del giudice tributario di assumere compiti di amministrazione attiva, in un giudizio che come detto investe, anzitutto, il corretto operato degli Uffici finanziari e la legittimità degli atti da questi emessi, e soltanto in seconda battuta, come conseguenza degli esiti di tale sindacato, l’eventuale debenza del tributo per le ragioni indicate dall’atto amministrativo.
14/1
“
Recensioni
Ancora non ci sono recensioni.