La tematica delle società partecipate dagli enti pubblici rappresenta un argomento che potremmo ormai serenamente definire di teoria generale del diritto, ascrivibile in tutta probabilità alla branca del cd. diritto pubblico della economia.
Involge innanzitutto la tematica dei limiti alla capacità negoziale della pubblica amministrazione nello specifico campo dei contratti societari, in ragione delle disposizioni di legge che da ultimo, al dichiarato fine di ridurre gli impatti sulla finanza pubblica, hanno imposto delle restrizioni alla suddetta capacità.
Una volta ammessa, sebbene entro determinati limiti, la possibilità per gli enti pubblici di ricorrere allo strumento societario, occorre affrontare la ancor più complessa problematica relativa al regime applicabile alle società dagli stessi costituite e partecipate. Il consistente impiego di risorse pubbliche ed il rilevante “spreco” storicamente registratosi in proposito, hanno difatti indotto il legislatore ad interessarsi, recentemente, della disciplina di tali società, in un primo tempo abbandonata alla integrale applicazione di quella codicistica.
Per la verità si è assistito ad un confusionario e schizofrenico legiferare, animato dall’unico e dichiarato scopo di ridurre il devastante impatto sulla finanza pubblica provocato dalla mala gestio che ha connotato la stragrande maggioranza di tali organismi. Mala gestio indubbiamente agevolata dall’improbabile connubio rappresentato dalla gestione, da un lato, di risorse della collettività, con assenza, quindi, di assunzione del “rischio imprenditoriale” in proprio, e dalla integrale applicazione, dall’altro, del regime privatistico, più permissivo di quello proprio dei soggetti pubblici in quanto costruito presupponendo, appunto, l’impiego ed il conseguente “rischio” di risorse proprie, finalizzato al lucro.
L’articolato quadro normativo che ne è derivato, connotatosi in termini di specialità, ha inevitabilmente alimentato altra affascinante ma complessa questione inerente la natura giuridica dei predetti organismi, anche e soprattutto alla luce del superiore diritto della Unione europea, con importanti ricadute in termini di riparto di giurisdizione tra il giudice ordinario e la magistratura contabile e configurabilità o meno della responsabilità per danno all’erario in capo al managment di tali società partecipate.
Torna, dunque, di attualità la tematica inerente l’esercizio privato delle pubbliche funzioni e dei pubblici servizi, quello che, con termini più moderni, è oggi definito sussidiarietà orizzontale e la ammissibilità o meno nel nostro ordinamento di un tertium genus tra la personalità giuridica di diritto pubblico e quella di diritto privato nel quale inquadrare tale fenomeno oppure la ascrivibilità dello stesso semplicemente all’una o all’altra tradizionale categoria.
Disamina che non può prescindere anche dal profilo storico che connota l’istituto delle società di diritto civile, nate proprio in ambiente pubblicistico, con le cd. Compagnie commerciali, Chartered company, appunto indicate dallo Zanobini quale esempio dell’esercizio privato delle pubbliche funzioni.
Tematica che oggi si arricchisce, come si diceva, anche del determinante contributo della normativa europea e della giurisprudenza della Corte di giustizia europea, poco attenta alle formali ripartizioni in categorie, tipiche del nostro ordinamento, e votata, invece, all’approfondimento della sostanza delle cose, come dimostrano la nozione di organismo di diritto pubblico o, quella ancor più complessa, dell’in house providing, enucleate nell’ambito materiale degli appalti pubblici.
Il tutto, calato in un settore dell’agire amministrativo caratterizzato da una grande tradizione storica, quale è la erogazione e gestione dei servizi pubblici e, più in particolare, dei servizi pubblici locali. È proprio, infatti, nell’evolvere storico di tale specifico settore dell’agire amministrativo e delle relative modalità di gestione che si è maggiormente proposta e sviluppata la evocata tematica dell’esercizio privato delle pubbliche funzioni e del ricorso da parte dell’amministrazione pubblica a strumenti tipici del diritto privato al fine di perseguire le proprie finalità istituzionali. Ciò ha imposto l’incontrarsi del “consenso” con l’agire autoritativo della amministrazione, costretta, in molti casi, pur nei periodi storici in cui ciò era ritenuto inammissibile (cfr. Otto Mayer e l’ostracismo del contratto quale possibile strumento dell’agire pubblico), a ricorrere comunque al know how dei privati al fine di garantire la erogazione di complessi, onerosi, ma al tempo stesso, essenziali ed irrinunciabili servizi pubblici (es: illuminazione pubblica). Ed è in questa fase storica che si sono sviluppate figure dogmatiche di compromesso quale la concessione di pubblico servizio.
Ed è proprio il cennato settore dei servizi pubblici locali, corrispondente ai servizi di interesse generale (SIEG) di cui al Trattato sulla Unione europea (TUE) e al Trattato sul funzionamento della Unione europea (TFUE), a testimoniare una evoluzione del medesimo diritto europeo verso quello che taluni autori cominciano a definire “diritto sociale europeo”.
Da una iniziale tutela rigida ed inflessibile del mercato unico europeo e della concorrenza, con spinta alle liberalizzazioni, si è, difatti, lentamente ammessa anche la considerazione del profilo sociale, della coesione economico-sociale, consentendosi, pertanto, deroghe al predetto regime della concorrenza e liberalizzazione, ove di ostacolo al raggiungimento della missione speciale degli Stati membri. Deroga ammissibile proprio nell’ambito del settore della erogazione dei SIEG (art. 106 TFUE).
Ritorna, in definitiva, più che in altre epoche storiche (Giolitti, Zanobini), l’eterna dialettica tra il pubblico ed il privato, riproposta, in tale frangente, nella problematica inerente il corretto inquadramento sistematico delle società di diritto privato partecipate da enti pubblici, nella stragrande maggioranza dei casi impiegate quale modalità di gestione ed erogazione dei servizi pubblici, più in particolare dei servizi pubblici locali, rendendo, nel contempo, nuovamente attuali le pregevoli considerazioni dello Spaventa, prima, e del Giolitti, poi, sulle ragioni a sostegno dell’intervento pubblico nella economia, pronunciate nell’ambito dello scontro ideologico consumatosi tra liberisti e socialisti della cattedra (interventisti).
Scontro ideologico che, seppure in base a differente impostazione, può nuovamente ritenersi alimentato, da un lato, dalle spinte liberaliste di matrice europea e, dall’altro, dalle necessità di intervento degli Stati nella economia imposte dalla recente gravissima fase di recessione economica mondiale.
L’approvazione del D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 recante il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (in vigore dal 23 settembre 2016) sebbene ha formalizzato la opzione per l’inquadramento sistematico delle stesse tra quelle di diritto privato, tuttavia continua a lasciare irrisolte talune problematiche e dubbi, anche sotto lo specifico profilo del se si tratti di società ordinarie di diritto privato oppure di società speciali. Ulteriori problematiche sono state, poi, evidenziate dalla Corte costituzionale con la recente sentenza 251/2016, costringendo il Governo ad attivarsi al fine di addivenire, entro breve termine, alla approvazione di un decreto correttivo, del quale, al momento, è stata approvata la bozza nella recente seduta del Consiglio dei Ministri del 17 febbraio 2017.
Nello studio che verrà qui di seguito riproposto si terrà, ovviamente, conto, sotto lo specifico profilo della incidenza sul regime delle società partecipate, anche delle novità introdotte, sia dalle nuove direttive europee 23, 24 e 25/2014 in tema di appalti, sia dal D.Lgs. 50/2016 di recepimento delle stesse, sia dal D.Lgs. 97/2016 con riferimento alla L. 190/2012 ed al D.Lgs. 33/2013 recanti la disciplina degli obblighi in tema di anticorruzione e trasparenza.
Nessuna novità rileva, invece, con riferimento alla disciplina in tema di modalità di organizzazione e gestione dei servizi pubblici economicamente rilevanti, essendo rimasta inattuata la delega per il riordino della stessa, conferita al Governo con la norma di cui all’art. 19, L. 124/2015 (cd. Legge Madia) ed ormai scaduta in data 27 novembre 2016.
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