Perché non raggiungiamo più il quorum? Contraccolpi di un altro fallimento

Il 9 giugno 2025, poche ore dopo la chiusura dei seggi, abbiamo avuto il dato definitivo relativo alla partecipazione ai referendum su lavoro e cittadinanza.
Hanno votato il 30,5% degli elettori. Il risultato migliore si registra a Firenze, che ha quasi raggiunto il quorum con il 46% di affluenza.
La percentuale è bassa, ma di certo il risultato non è inaspettato. E mentre molti parlano di morte della democrazia, forse sarebbe il caso di ripensare il referendum che, così come è, non sta funzionando.
In questo articolo vediamo quali sono le possibili cause della crisi dello strumento referendario e come potrebbe cambiare nei prossimi anni.
Il referendum
Il referendum è un istituto di partecipazione diretta e, per la sua importanza, ne abbiamo parlato spesso. Questa volta, però, proviamo a trattarlo da un punto di vista diverso tenendo bene a mente due dati: per presentare la richiesta di referendum devono essere depositate 500.000 firme. Per la buona riuscita del referendum è necessario che votino il 50% + 1 degli elettori.
Un caso di studio: il primo referendum nella storia della Repubblica
Nella storia repubblicana italiana abbiamo votato 19 volte per referendum abrogativi.
Previsto dall’articolo 75 della Costituzione, il primo referendum risale al 1974. In quell’occasione agli italiani fu sottoposto un quesito semplice:
«Volete che sia abrogata la legge 1º dicembre 1970, n. 898, “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”?»
La democrazia cristiana (partito all’epoca maggioritario) voleva abrogare la legge sul divorzio, ma, in modo inaspettato, gli italiani votarono in senso contrario alle indicazioni del governo e scelsero di non abrogare la legge.
In quell’occasione 33 milioni di persone su 37 milioni di aventi diritto espressero il loro parere, contrario non solo a quello del partito all’epoca di maggioranza ma anche, cosa ancora più strabiliante per l’epoca, a quello della Chiesa cattolica.
Anche nel 1974 era necessario il quorum per la buona riuscita di un referendum, ma chi non voleva l’abrogazione della legge sul divorzio (più di 19 milioni di persone) andò comunque a votare invece di astenersi. Per chi ha 30 anni o meno sembra fantascienza, ma era un Italia in cui la partecipazione alle elezioni superava il 90% e in cui votare era percepito come un diritto da esercitare, prima ancora che un dovere.
Quello del 1994 fu il referendum del record di partecipazione (87,7%), ma anche tutti gli altri referendum fino al 1997 hanno raggiunto il quorum.
La partecipazione alla vita politica era molto diversa fino agli anni Novanta. L’affluenza alle elezioni politiche superava il 90% degli elettori e quindi non stupisce neanche il plebiscito raggiunto dal referendum sul divorzio e da tutti quelli che ne sono seguiti.
Il 1997 è l’anno che ha aperto il ciclo dei referendum “disertati”, con una partecipazione sempre più bassa e con gli inviti “ad andare al mare” da parte dei politici.
Per dieci volte la maggioranza degli elettori ha ritenuto di non esprimersi, con l’unica eccezione del 2011, quando si votò su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento.
Il dato più basso di sempre è quello del 2022, quando per i referendum sulla giustizia ha votato poco più del 20% degli elettori.
Ma è solo un problema di disaffezione al voto degli italiani?
Il quorum: un obiettivo sempre più irraggiungibile
Il referendum rappresenta uno dei pochi momenti di partecipazione diretta alla vita politica del Paese. Ma allora perché non riusciamo più a raggiungere il quorum?
Sarebbe semplice imputare il risultato elettorale agli italiani, sempre meno interessati alla politica, ma la realtà è – come sempre – più complessa.
Quell’antilingua di Calvino che ha conquistato la politica
Era il 1965 e Italo Calvino scriveva un articolo sull’antilingua, cioè l’arte di complicare una lingua semplice sostituendo a parole che tutti possono capire termini lunghi e complessi, periodi che si susseguono e accavallano, fino a far perdere il lettore in un labirinto di parole. La conseguenza dell’antilingua? L’incomprensione.
La disaffezione al voto c’è, ad ogni elezione ne prendiamo atto quando leggiamo un numero: quello dell’astensione. Il primo partito in Italia, in qualsiasi tipo di elezione (politica, amministrativa, referendaria) è quello di chi sceglie di non votare.
Forse però i fallimenti dei referendum c’entrano qualcosa con quell’antilingua di cui parlava Calvino e con un linguaggio della politica che sui temi non populisti è sempre più lontano da quello degli elettori, troppo spesso reso complicato proprio per non farsi capire.
Ne scrive Tito Boeri, che in un editoriale di Repubblica chiede di non chiamare l’astensione di questi giorni ignavia democratica. Secondo l’ex presidente dell’INPS l’esercizio della democrazia comporta fare un buon uso dello strumento referendario e ciò significa porre quesiti agli elettori che siano di interesse generale e a cui sia possibile dare una risposta anche senza competenze specifiche.
Anno dopo anno prendiamo atto dell’astensione eppure siamo passati da questo:
«Volete che sia abrogata la legge 1º dicembre 1970, n. 898, “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”?»
a questo:
«Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, dalla sentenza della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145; dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40; dalla sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2020, n. 150; dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147; dal d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79 (in G.U. 29/06/2022, n. 150); dalla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2024, n. 22; dalla sentenza della Corte costituzionale del 4 giugno 2024, n. 128, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?»
I quesiti sono sempre più complessi e tecnici, incomprensibili per chi non è un esperto di diritto e, a onore del vero, anche per chi un po’ di diritto lo mastica. Se per esprimere la propria opinione è necessario comprendere, forse abbiamo una prima risposta al perché molti hanno preferito non votare.
L’incapacità di prendere atto del cambiamento
Per i referendum c’è un evidente problema di regole e il fallimento passa sempre in qualche modo per l’incapacità di capire il cambiamento.
Due dati sono al centro del dibattito, per la verità da molto prima del referendum su lavoro e cittadinanza.
Per presentare la richiesta di referendum sono necessarie 500.000 firme e per la sua riuscita devono vorare il 50% + 1 degli aventi diritto.
Le regole sono uguali a quelle applicate ad un mondo che era diverso da quello attuale. Dagli anni Settanta ad oggi molte cose però sono cambiate.
Il referendum è uno strumento in crisi e lo dimostrano i numeri: solo nel 2011 negli ultimi trent’anni è stato raggiunto il quorum. Il perché potrebbe riguardare due fattori.
Da un lato, dal 2021 le 500.000 firme si possono raccogliere anche online, il che rende molto più facile la raccolta ma anche molto meno rappresentativa di una volontà reale.
Dall’altro, l’affluenza è diminuita per tutte le elezioni e l’astensionismo è diventato un fenomeno strutturale che non può essere ignorato. Ad oggi è quasi impossibile che la metà degli elettori vadano a votare per due motivi principali. Prima di tutto, nei referendum non votare è uno strumento politico equivalente – se non addirittura più forte – rispetto all’espressione del voto. In secondo luogo, la complessità dei quesiti impedisce di portare il dibattito sui temi.
Il quorum del 50% + 1 è stato pensato (e funzionava) quando la partecipazione alle elezioni superava il 90%, ma ha ancora senso in un Paese in cui alle ultime elezioni ha votato solo il 60% di chi ne aveva diritto?
Il dibattito deve (o almeno dovrebbe) riguardare il funzionamento del referendum e deve (o dovrebbe) essere incentrato su come adeguarlo ai tempi che sono cambiati per mettere i cittadini in condizione di partecipare. Ogni volta che indiciamo un referendum, infatti, stiamo investendo una parte di soldi pubblici (questa volta circa 88 milioni) all’esercizio della democrazia.
Quali sono le proposte di modifica?
Si parla in questi giorni di due modifiche: la prima riguarda l’innalzamento del numero di firme richieste per presentare la proposta di referendum quorum, la seconda l’abbassamento del quorum.
In particolare, per le firme si pensa di alzarle da 500.000 a 1 milione, il che potrebbe comunque non avere alcun effetto positivo, visto che i quesiti sul lavoro avevano raccolto più di un milione di firme. Per il quorum le proposte sono diverse: abbassarlo al 40% degli aventi diritto, legarlo al dato di partecipazione alle ultime elezioni e così via.
A prescindere da qualsiasi riforma, un dato è certo: i quesiti devono essere comprensibili. Non si può ricercare la partecipazione quando chiunque non sia un tecnico non riesce a capire per cosa dovrebbe votare.