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Il caso Garlasco vent’anni dopo Abbiamo messo in galera un innocente?

caso Garlasco 2025

Il 13 agosto 2007, a Garlasco, piccolo paesino in provincia di Pavia, la venticinquenne Chiara Poggi viene uccisa. Dopo quasi vent’anni l’omicidio di Garlasco è tornato sulle prime pagine dei giornali e nelle aule di giustizia.
Dopo la condanna definitiva di Alberto Stasi nel 2015, nuove indagini hanno portato alla riapertura del caso. Oggi c’è un “nuovo” indagato per l’omicidio di Chiara Poggi: Andrea Sempio, amico del fratello minore della vittima. Il DNA di Sempio era stato riscontrato sotto le unghie di Chiara, ma la quantità fu ritenuta insufficiente per fare una comparazione attendibile. Le indagini nei suoi confronti furono archiviate nel 2015 per poi essere riaperte dopo dieci anni.
Siamo forse difronte ad uno di quei casi in cui non sono bastati tutti i gradi di giudizio previsti dalla legge per accettare la verità? E, se così fosse, e la condanna di Alberto Stasi fosse un errore, cosa succede? Quali possibilità offre il nostro ordinamento per rimediare ad una condanna ingiusta? Cosa accade se nuovi indizi indicano un altro colpevole ma la giustizia si è già espressa? Questo articolo esplora il delicato equilibrio tra l’esigenza di certezza e la ricerca della verità, analizzando il ruolo del principio del ne bis in idem. Partiamo dal caso e dalle indagini che seguirono il ritrovamento del corpo.

Gli errori degli inquirenti: quando le indagini partono male

Dopo il ritrovamento del cadavere di Chiara Poggi, le indagini si concentrarono unicamente sul suo fidanzato, Alberto Stasi, che fu assolto in primo e secondo grado, ma condannato in via definitiva in Cassazione nel 2015 a 16 anni di reclusione.

L’autopsia sul corpo di Chiara venne fatta pochi giorni dopo la sua morte, ma la sua salma non venne pesata: a Pavia mancava la bilancia. Pesare la salma avrebbe fatto ottenere delle indicazioni più precise sull’ora della morte, che si ritiene avvenuta tra le 11 e le 11:30.

Le scarpe che Stasi aveva utilizzato per entrare nella casa di Chiara furono sequestrate dagli inquirenti solo il giorno dopo. Erano pulite e l’impronta trovata a casa Poggi non coincideva. Anche le impronte della vittima non vennero prese subito, si dovette riesumare il corpo per farlo. L’accusa sostenne che Stasi aveva buttato via le scarpe sporche di sangue consegnandone altre agli inquirenti.

L’impronta di un dito della mano di Stasi venne trovata dagli inquirenti sul dispenser del sapone nel bagno di casa Poggi. Indizio cruciale che convinse la Corte di Cassazione che l’assassino avesse toccato la vittima e poi si fosse lavato le mani. La convinzione della Corte derivava da una nuova perizia in cui si scoprì un’impronta sul pigiama della vittima cosparso di sangue.

La bicicletta di Stasi venne sequestrata ed anche il suo computer. I pedali della bicicletta erano puliti e la perizia sul PC dimostrava che Stasi lavorava alla sua tesi di laurea al momento della morte di Chiara. L’analisi del computer di Stasi fu fondamentale per verificare il suo l’alibi ma fu eseguita con modalità che ancora oggi sollevano dubbi tra i consulenti tecnici.

La gestione iniziale della scena del crimine fu criticata per contaminazioni e mancata repertazione di oggetti chiave. La condanna di Stasi si basò su un quadro indiziario complesso e molti elementi sono controversi: la dinamica dell’omicidio, l’assenza di sangue sulle scarpe di Stasi, le impronte non identificate, i pedali puliti. La Corte creò una ricostruzione coerente, ma non univoca, della responsabilità dell’imputato.

Dalle assoluzioni alla condanna

Nel primo processo con rito abbreviato, che si concluse nel 2009, Stasi fu assolto grazie alle nuove perizie richieste dal giudice. Anche il giudizio d’appello dinanzi la Corte D’Assise di Milano vide Stasi nuovamente assolto. Nel 2013 la Corte di Cassazione annulla la sentenza d’appello e ordina un nuovo processo. Nel 2014 la Corte d’Assise d’Appello di Milano chiede in dibattimento una nuova perizia. Si scoprì che i pedali della bicicletta di Stasi non erano quelli originali e poi l’indizio cruciale: l’impronta di Stasi prima sul pigiama della vittima e poi sul dispenser. Stasi venne condannato per omicidio volontario. Nel 2015 la Corte di Cassazione conferma la sentenza di condanna. Alberto Stasi è condannato a 16 anni di carcere. Nel 2016 la difesa di Stasi fa ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per richiedere la revisione del processo, che non fu accolta.
Nel 2016 la Procura di Pavia aprì una nuova indagine sulla base di una nuova perizia presentata dalla difesa di Stasi. La perizia indicava che il DNA trovato sotto le unghie di Chiara non apparteneva a Stasi, ma ad un conoscente della vittima: Andrea Sempio. Oggi nuovamente indagato per la morte di Chiara Poggi.

Il ne bis in idem: garanzia o ostacolo alla verità?

Il principio del ne bis in idem ha un ruolo centrale nel diritto nazionale e sovranazionale. La locuzione letteralmente significa “non due volte per la stessa cosa”. Esso esprime il divieto di giudicare o punire una persona due volte per lo stesso fatto, ed è declinabile in due diverse accezioni: sostanziale e processuale.
Dal punto di vista sostanziale il principio garantisce che a un soggetto non vengano applicate più pene per lo stesso reato, anche quando le condanne provengano da un unico procedimento.
Sotto il profilo processuale, il ne bis in idem assicura che una volta intervenuta una sentenza definitiva — di condanna o assoluzione — per un determinato fatto, non venga instaurato un nuovo giudizio penale contro lo stesso soggetto per lo stesso fatto. Questo aspetto è rilevante ai fini della certezza del diritto, poiché impedisce che una persona resti esposta a un potenziale e indefinito reiterarsi di procedimenti per lo stesso episodio.
Nell’ordinamento italiano, la Costituzione non prevede espressamente questo principio nella sua forma sostanziale. La dottrina lo ha implicitamente individuato nell’articolo 27, che consacra i principi di colpevolezza, offensività e proporzionalità della pena. La dimensione processuale del ne bis in idem trova tutela nell’articolo 111 della Costituzione che al suo secondo comma sancisce la garanzia della ragionevole durata del processo. Anche il diritto europeo contribuisce in modo significativo alla definizione del principio. L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza) lo afferma in maniera esplicita nella sua dimensione processuale, mentre l’articolo 49 ribadisce il divieto di pene sproporzionate, richiamando così anche la valenza sostanziale del principio.
Nel nostro ordinamento, l’articolo 649 del codice di procedura penale è la più chiara traduzione del principio sotto il profilo processuale. È vietata l’apertura di un nuovo procedimento per il medesimo fatto nei confronti di chi sia già stato prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile.
Il principio del ne bis in idem svolge una funzione essenziale di garanzia. Sotto il profilo processuale tutela la stabilità delle decisioni giudiziarie e il diritto dell’individuo a non essere processato più volte per lo stesso fatto. Sotto il profilo sostanziale preserva la giustizia e l’equità del sistema penale, vietando sanzioni multiple e sproporzionate per un unico illecito.
Nel caso Garlasco questo principio non impedirebbe la revisione della sentenza se dovessero emergere nuove prove a favore di Stasi e nemmeno un nuovo processo nei confronti di un altro soggetto, poiché il ne bis in idem si applica solo alla stessa persona e non al fatto in sé. In altre parole, il sistema tutela l’imputato da doppie condanne, ma non impedisce che la giustizia continui a cercare il vero responsabile, se diverso da chi è stato già giudicato.

Il rimedio: la revisione del processo

La revisione è lo strumento con cui l’ordinamento cerca di correggere eventuali errori giudiziari. Non è un secondo grado di giudizio, ma un rimedio straordinario attivabile solo in presenza di prove nuove o fatti decisivi non conosciuti al momento della sentenza. Nel caso di Garlasco, ad esempio, l’attribuzione dell’impronta a Sempio potrebbe costituire una nuova prova.

Il difficile equilibro del caso

Il caso Garlasco ci mette davanti a una domanda difficile: cosa è più importante, la certezza della pena o la verità processuale? Il diritto penale si muove tra queste due esigenze. Evita l’arbitrio ma non rinuncia alla giustizia. Il principio del ne bis in idem è una tutela essenziale ma non deve diventare un alibi per lasciare impuniti i veri responsabili. La revisione, se usata con rigore, è l’unica via per correggere gli errori senza tradire i principi del giusto processo.

Per approfondire le questioni relative al principio del ne bis in idem e della revisione del processo ti consigliamo lo studio del nostro Compendio di diritto penale e di procedura penale.