La riduzione dei riti è un obiettivo lodevole, perché il numero eccessivo di modelli processuali è fonte di complicazioni e inefficienze. Il guaio, però, è che il D.Lgs. 150/2011, contrariamente alle intenzioni del legislatore, non ha né ridotto né semplificato i riti esistenti, ma li ha conservati, mantenendo inalterate le peculiarità di ciascuno, sia pure riconducendoli, nei tratti essenziali, ai tre modelli del processo ordinario e sommario di cognizione e del processo del lavoro.
All’interno di ciascuno dei tre modelli-tipo sono stati creati numerosi «sottoriti», la cui disciplina è rimasta pressoché inalterata, salvo un rinvio, per le eventuali lacune di disciplina, al macromodello di riferimento. Una reale ed efficace semplificazione avrebbe imposto, in realtà, il percorso inverso: espungere, cioè, dalla disciplina speciale di ciascun procedimento ogni elemento estraneo alla cornice processuale di riferimento, prevedendo una fase introduttiva comune a ogni procedimento, seguita da una fase di trattazione diversificata, entro determinati limiti, in base al grado di complessità della causa.
Ad esempio, i procedimenti ricondotti al rito del lavoro, in un’ottica di effettiva semplificazione, avrebbero dovuto mutuarne realmente i caratteri di immediatezza, oralità e concentrazione, rispecchiando per intero la disciplina introduttiva del giudizio e le modalità di costituzione delle parti ex artt. 414-418 c.p.c. Invece, per menzionare il caso più eclatante, nel nuovo rito del lavoro in materia di opposizione a sanzione amministrativa non sono stati espunti i caratteri della disciplina già prevista dalla L. 689/1981, quali il meccanismo di allegazione della copia del rapporto e degli atti relativi all’accertamento della violazione e alla sua contestazione e la notifica del ricorso a cura della cancelleria.
La stessa disciplina del mutamento del rito voluta dall’art. 4 D.Lgs. 150/2011 accentua i profili specializzanti dei nuovi sottoriti.
Tale disposizione prevede che quando una controversia è promossa con forme diverse da quelle previste dal D.Lgs. 150/2011, il giudice può disporre il mutamento del rito, anche d’ufficio, non oltre la prima udienza di comparizione delle parti. Ciò comporta, a differenza di quanto previsto dagli artt. 426, 427 e 439 c.p.c., un’ulteriore deviazione rispetto ai modelli codicistici, ponendo al giudice una preclusione al rilievo dell’errore sul rito anche se, per ipotesi, tale errore abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o abbia causato un altro specifico pregiudizio processuale a una delle parti.
Risulta chiaro, insomma, che la semplificazione dei riti è soltanto nominale, poiché i numerosi modelli processuali che hanno formato oggetto di intervento da parte del D.Lgs. 150/2011 hanno conservato le loro peculiarità, salvo talune, marginali semplificazioni.
Inoltre, non può neanche dirsi che siano stati semplificati i testi da consultare, come qualcuno ha osservato, perché le numerose leggi speciali che prevedono i vari sottoriti sono state, in gran parte, mantenute. Le abrogazioni, infatti, hanno riguardato, nella maggior parte dei casi, singoli articoli o singoli commi, lasciando in piedi, per il resto, la disciplina previgente.
Nonostante le evidenti lacune di questa ennesima pseudo riforma del processo civile, si è ritenuto utile fornire, accanto a un primo commento della disciplina, un formulario che consenta di cogliere la portata applicativa delle nuove norme e di orientare la prassi degli operatori nella giusta direzione, secondo la nota legge di Murphy secondo la quale «è meglio un libro con un formulario che un libro senza formulario».
I tempi tirannici imposti dalla crudele dott.ssa Rossana Petrucci possono aver causato qualche errore od omissione, che siete pregati di segnalare.
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