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Le fasi dell’iter criminis e il delitto tentato
Nella commissione del reato la condotta delittuosa attraversa normalmente diverse fasi che integrano il cd. iter criminis, e la frazionabilità di questo iter costituisce il presupposto essenziale per la configurabilità del tentativo.
Sotto tale profilo si è soliti distinguere in dottrina tra i differenti momenti dell’ideazione, della preparazione, dell’esecuzione e della consumazione.
La fase dell’ideazione si sviluppa tutta all’interno della psiche del soggetto e di per sé non è punibile, come si ricava dall’art. 115 c.p. che costituisce espressione del generale principio cogitationis poenam nemo patitur (ossia: a nessuno può infliggersi una pena per i suoi pensieri).
La fase della preparazione può aversi, per sua stessa natura, soltanto nei reati a dolo di proposito, diversamente dalla fase dell’esecuzione che consiste nel compimento della condotta richiesta per l’integrazione del reato. Integrazione che sarà perfetta e completa, però, soltanto quando siano presenti tutti gli elementi previsti dalla legge per l’esistenza del reato, e cioè quando il fatto concreto si dimostri pienamente conforme all’ipotesi astratta delineata dal legislatore (fase della consumazione).
Questa scissione analitica dei momenti dell’iter criminis non ha scopo puramente accademico, perché consente di affrontare il problema principale in materia di tentativo: l’individuazione, cioè, del momento dell’iter criminis a partire dal quale il soggetto è punibile.
In astratto, sono adottabili due diverse soluzioni: per la prima, il soggetto andrebbe considerato punibile sulla base della mera volontà malvagia e per la mera intenzione di commettere il reato comunque manifestata e dimostrata (e si tratta di una soluzione coerente con i gli orientamenti dottrinali che incentrano la pena sull’atteggiamento psicologico del reo); per la seconda, il soggetto è punibile soltanto quando la sua intenzione criminosa si sia in concreto tradotta in un comportamento prossimo all’esecuzione e alla consumazione del reato, tale da presentarsi idoneo a realizzarlo con probabile lesione del bene protetto dalla norma (e si tratta della soluzione adottata dalla maggior parte dei sistemi penali contemporanei, tra i quali il nostro).
Presupposti per la punibilità del tentativo
Il tentativo individua la volontà di commettere un reato e si dispiega nell’azione diretta alla commissione dello stesso, con la non trascurabile circostanza che però l’azione rimane senza successo per cause indipendenti dalla volontà del soggetto.
Ciò posto, affinché possa parlarsi di tentativo punibile occorre che gli atti compiuti siano di per sé idonei a realizzare il reato e a porre in pericolo il bene protetto, nonché tali da manifestare all’esterno l’intenzione criminosa del soggetto.
Ed infatti, qualora l’intenzione criminosa non risultasse dall’azione si rischierebbe di punire il mero proposito delittuoso, in contrasto con il principio di materialità; e similmente, laddove difettasse il requisito dell’idoneità si rischierebbe di punire un’azione non avente attitudine a ledere o porre in pericolo il bene protetto, in contrasto con il principio di offensività.
Il nostro codice ha risolto il problema della punibilità del tentativo dettando all’art. 56 c.p. una norma in grado di districare il problema relativo all’individuazione del momento di inizio dell’attività punibile.
In base all’art. 56 c.p., «chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica».
Dalla lettura della norma, consegue che presupposti del tentativo sono:
1) l’intenzione criminosa;
2) l’incompiutezza dell’azione o il non verificarsi dell’evento;
3) l’idoneità degli atti;
4) l’univocità degli atti.
Il tentativo esige dunque, in primo luogo, l’intenzione di commettere un delitto: il reato, dal punto di vista soggettivo, è perfetto, ma nella sfera oggettiva si presenta incompleto perché l’ipotesi delittuosa prevista dal legislatore si verifica solo in parte.
L’incompiutezza, invece, si manifesta in due forme: 1) nella prima l’azione non giunge a compimento («non si compie»); 2) nella seconda, pur giungendo l’azione a compimento, l’evento non si verifica. E a tal riguardo si parla rispettivamente di tentativo incompiuto e tentativo compiuto, distinzione rilevante nel previgente codice Zanardelli (che qualificava la seconda ipotesi come “delitto mancato” e ad essa correlava un più grave trattamento sanzionatorio), ma che non rileva oggi essendo le due ipotesi unificate quoad poenam.
Un esempio di tentativo incompiuto è ravvisabile nel caso del ladro che cerca di scardinare una cassaforte ma, sorpreso dai proprietari, si dà alla fuga (l’azione non si compie); un’ipotesi di tentativo compiuto è invece ravvisabile nel caso di chi cerchi di uccidere taluno sparandogli con un fucile, ma poi non riesce a colpirlo a causa di un errore di mira (l’evento non si verifica).
L’aspetto più problematico in materia di tentativo attiene però alla determinazione dell’inizio dell’attività punibile.
Si pensi a chi intende uccidere un nemico, poi si procura un’arma, poi esegue degli appostamenti per studiare le abitudini della vittima e infine, scelti tempo e luogo, punta l’arma e spara: da quale momento il soggetto può dirsi punibile?
È chiaro che quanto più la soglia della punibilità è anticipata, tanto più vi è il rischio di far entrare nella sfera del penalmente rilevante meri propositi delittuosi, mentre se la soglia di punibilità si sposta troppo in avanti si frustrano, al contrario, le esigenze preventive sottese alla punibilità del tentativo.
Ciò detto, con la formula «atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto» il nostro Codice ha inteso superare le difficoltà connesse alla distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi in termini di rilevanza penale degli stessi, e attenendosi alla lettera dell’art. 56 c.p. deve concludersi, anche in omaggio al principio di offensività, che ai fini della punibilità è necessaria la pericolosità del tentativo e cioè il pericolo di realizzazione del delitto perfetto, nel senso che gli atti posti in essere devono lasciar prevedere che l’agente verosimilmente avrebbe commesso il reato.
L’art. 56 c.p. fonda la punibilità del tentativo sul grado di sviluppo dell’azione criminosa esigendo l’univocità degli atti.
Sul punto, si rileva che l’azione non può considerarsi univocamente diretta al delitto se non è giunta ad uno stadio tale da far ritenere assolutamente improbabile che il soggetto la interrompa desistendo dal proposito criminoso.
L’ultimo requisito fondamentale del tentativo è l’idoneità degli atti a commettere il delitto.
Il previgente codice Zanardelli parlava di idoneità dei mezzi, mentre oggi l’idoneità è riferita all’atto.
E l’innovazione è quantomai opportuna perché, da un punto di vista scientifico, non esiste un mezzo in sé idoneo o inidoneo, e il giudizio di idoneità va necessariamente riferito all’attività di impiego del mezzo.
Così, ad esempio, un fucile è un mezzo idoneo in sé, ma può risultare del tutto inidoneo qualora sia utilizzato per uccidere una persona che si trova al di là della portata dell’arma.
In definitiva, il giudizio di idoneità non va formulato in astratto, ma operato in concreto prendendo in considerazione tutte le circostanze nelle quali si svolge l’attività, oltre alle conoscenze dell’uomo medio e quelle eventualmente maggiori dell’agente. Così, se l’uso di una certa dose di zucchero non è in astratto idonea a cagionare la morte di una persona, può tuttavia esserlo in concreto se la persona è gravemente diabetica e tale circostanza sia nota al reo.
In ogni caso, l’idoneità non va valutata ex post bensì ex ante, nel senso che occorre riportarsi al momento dell’azione.
La desistenza ed il recesso
Desistenza e recesso presuppongono entrambi che il soggetto abbia posto già in essere un tentativo punibile, ma che, cambiando idea, faccia in modo che il delitto non giunga a consumazione: nella desistenza, interrompendo l’azione delittuosa; nel recesso attivo, tenendo una controcondotta in modo da evitare che si produca l’evento.
Quindi la mancata consumazione del reato è dovuta alla mutata volontà del soggetto.
Ciò presuppone ovviamente che, al momento dell’azione impeditiva del soggetto, sussistessero ancora la possibilità e il pericolo di consumazione del reato (se tale possibilità fosse già venuta meno, si avrebbe infatti tentativo fallito ma come tale interamente punibile: MANTOVANI).
Entrambi gli istituti hanno una evidente connotazione premiale, in quanto assicurano al soggetto, che volontariamente impedisce la consumazione del reato, l’impunità (nel caso della desistenza e sempreché gli atti già compiuti non costituiscano di per sé reato: ad esempio, chi desiste dal furto dopo essersi introdotto in casa altrui mediante effrazione della serratura non risponderà di tentato furto, ma potrà comunque rispondere di violazione di domicilio e danneggiamento), o un’attenuazione di pena (nel caso del recesso attivo).
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