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Profili generali
Nel moderno diritto penale non è sufficiente che un fatto-reato sia materialmente imputabile ad un soggetto perché questi possa essere chiamato a risponderne.
Oltre alla commissione o causazione materiale del fatto, occorre che lo stesso gli sia attribuibile anche da un punto di vista psicologico in modo che possa considerarsi, anche da questo punto di vista e perciò altresì completamente, opera sua.
Il concetto di colpevolezza riassume proprio l’insieme delle condizioni psicologiche per l’imputazione personale di un fatto al suo autore.
Tali condizioni, in particolare, sono enucleabili come segue:
1) è necessario che l’azione possa considerarsi, da un punto di vista materiale, come azione o fatto proprio dell’agente e non come il prodotto delle forze cieche della natura (caso fortuito o forza maggiore);
2) è necessario che il soggetto si sia determinato coscientemente al compimento di quella determinata azione, ossia che sia capace di agire in base ad impulsi consapevoli e non sia quindi affetto da malattie o deviazioni della personalità che alterino il processo motivazionale coartando la sua volontà; è chiaro infatti che all’infermo di mente, o comunque a colui che non era capace di intendere e di volere al momento del fatto, nessun rimprovero può muoversi per essersi comportato in quel determinato modo;
3) una volta che possa parlarsi di azione umana commessa da un soggetto consapevole, occorre che al soggetto possa muoversi un rimprovero per aver voluto quel determinato fatto costituente reato o per non averlo evitato pur essendo prevedibile che dalla sua condotta lo stesso sarebbe derivato; se il fatto non è stato voluto, e né era prevedibile ed evitabile, nessun rimprovero potrà muoversi al soggetto per averlo posto in essere.
La funzione di garanzia del principio nulla poena sine culpa
Nel nostro ordinamento, caratterizzato dal predominio della funzione preventiva (nella duplice prospettiva della prevenzione generale e speciale) e rieducativa della pena, la colpevolezza, oltreché fondamento della potestà punitiva, svolge un fondamentale ruolo di garanzia della libertà individuale, contemperando l’efficacia deterrente del sistema penale con il rifiuto della responsabilità per la sola causazione materiale del fatto.
In questa dimensione garantista si comprende come la storia del diritto penale sia stata caratterizzata dal progressivo passaggio prima dalla responsabilità per fatto altrui (propria di ordinamenti giuridici primitivi nei quali, per esempio, si puniva il padre per il fatto del figlio), poi alla responsabilità oggettiva, fondata solo sulla causazione materiale del fatto, e infine alla responsabilità colpevole in cui il soggetto è chiamato a rispondere unicamente per il fatto proprio che gli sia attribuibile psicologicamente in quanto commesso con dolo o, quantomeno, con colpa.
Il principio di colpevolezza è poi intimamente connesso alla finalità rieducativa della pena, non essendo pensabile un’attività di rieducazione nei confronti di un soggetto che abbia sì materialmente commesso un fatto-reato ma senza la volontà di cagionarlo e senza manifestare verso il bene tutelato indifferenza o noncuranza.
Le teorie sulla colpevolezza
Secondo la teoria psicologica, la colpevolezza consiste in un nesso psicologico tra il soggetto ed il fatto.
Si tratta di una teoria di derivazione illuministica che da un lato richiede per la punibilità la partecipazione psicologica del soggetto al fatto, e dall’altro esclude ogni valutazione di riprovazione morale quanto al comportamento del soggetto.
In questa prospettiva la colpevolezza è uguale per tutti i fatti, e non può valere ai fini della gradazione della pena che dovrà basarsi soltanto su elementi oggettivi.
Secondo la teoria normativa, invece, la colpevolezza si sostanzia nel giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile non assumere; o anche (MANTOVANI) è un dato normativo che esprime il rapporto di contraddizione tra la volontà del soggetto e la norma.
Tale teoria, a differenza di quella psicologica, restituisce un concetto unitario di dolo e di colpa basato sul dato comune del rapporto di contraddizione con l’ordinamento: il fatto doloso, in tale ottica, è il fatto volontario che non si doveva volere, mentre il fatto colposo è il fatto involontario che non si doveva produrre.
Ciò che conta, è che in entrambi i casi il soggetto ha agito in modo difforme da come l’ordinamento voleva che agisse.
E in tal modo la colpevolezza vale non solo a fondare, ma anche a graduare la punibilità, essendo la volontà diversamente rimproverabile in ragione della maggiore o minore antidoverosità.
La colpevolezza nella Costituzione
Al fine di addivenire alla imputazione del fatto al soggetto occorre che questi sia rimproverabile per averlo voluto o per averlo prodotto pur potendo evitarlo.
In tal modo al soggetto vengono attribuititi solo i fatti che rientrano nell’ambito della sua possibilità di controllo, mentre non potrebbero essergli addebitati fatti che ad esso sfuggono.
Questa esigenza è espressa dall’art. 27 Cost. a tenore del quale «la responsabilità penale è personale».
Vero è che tale principio è stato inteso in due accezioni differenti:
- a) secondo un orientamento restrittivo, esso consentirebbe la punizione del soggetto per il fatto da lui materialmente causato indipendentemente dalla partecipazione psicologica, e le ipotesi di responsabilità oggettiva non sarebbero incostituzionali;
- b) secondo una diversa accezione, il principio starebbe invece ad indicare proprio il divieto della responsabilità oggettiva, cioè di una responsabilità senza partecipazione psicologica del soggetto e basata sulla mera causazione materiale del fatto. Questa interpretazione più ampia appare confermata dal terzo comma dell’art. 27 che, affermando il finalismo rieducativo della pena, richiede necessariamente che il soggetto sia da rieducare e che la pena che in concreto gli viene inflitta abbia appunto questo scopo, perché non può dirsi bisognoso di rieducazione il soggetto che ha realizzato il fatto senza né dolo né colpa e non ha dunque evidenziato avversione o indifferenza per i beni protetti dall’ordinamento.
La coscienza e volontà o suitas della condotta
L’art. 42 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito per un’azione od omissione prevista dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà.
La norma esprime sostanzialmente il principio che la condotta, prima ancora che dolosa o colposa, dev’essere umana, e che è tale solo la condotta che rientri nella signoria della volontà differenziandosi, come tale, dagli accadimenti naturali.
La coscienza e volontà non è un inutile duplicato della capacità di intendere e di volere richiesta per l’imputabilità dall’art. 85 c.p.: il soggetto può infatti essere imputabile e ciononostante compiere un’azione senza coscienza e volontà, come accade ad esempio in caso di sonnambulismo.
La suitas e l’imputabilità integrano dunque due concetti differenti: mentre la suitas è quel coefficiente che consente di riferire la condotta al suo autore e, quindi, di ritenerla umana, l’imputabilità presuppone già accertata l’appartenenza della condotta all’agente e si identifica nella capacità di quest’ultimo di intendere correttamente il valore del comportamento che si accinge a porre in essere.
L’imputabilità integra allora uno status, un modo di essere del soggetto nel momento in cui pone in essere una condotta, mentre la suitas indica la volontà concreta dell’atto considerata al momento della sua attuazione.
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